Racconti erotici: Nulla è più terribile di uno spiraglio (Prima Parte)

Spirale

Appuntamento ogni domenica e lunedì con i “Racconti Sexisti” di Miss Lucy

Mi chiedevo dove avessi messo la penna.
Quella maledetta penna che è anche stimolo inconsiderato del mio concetto di donna. A volte, il lavoro di giornalista pesa quanto una sostanza che si nasconde dal creato.
Trovo la penna.
Devo intervistare un famigerato politico, anarchico e miserabile, una persona che a me non dà nulla: è solo pane per i miei denti. Mi nutro di blocchetto, penna, registratore ed esco. Tutti seviziano i loro appunti su prestigiosi taccuini; io spalmo le mie parole su un euro di block-notes a quadretti. Essere alternativa fa di me l’abbondanza.
Corro, ora corro perché si è fatto tardi. Perché stamattina ho messo i tacchi? Non avevo deciso di posizionarmi in una comoda e andante situazione? Niente da fare, la mia contraddizione spazia stimoli che mai riuscirò a capire. La mia gonna saltella con ritmo costante alla mia camicia: stamattina sono una donna moderata, con in tasca la sorte di una penna. Il taxi ha un numero ordinario e strano alla mia memoria. Per un attimo ho pensato di avere un appuntamento con il Diavolo in persona. Chissà, potrebbe anche succedere di incontrarlo davvero. Ho una mente malata, che distrugge i nervi solo al pensiero di esibirmi, ma oggi sono seria e responsabile di me: estremamente libera dai miei peccati. L’autista, affamato di soldi, mi fa pagare prima che arrivi a destinazione. A volte, non capisco il gioco di morire.

Negli specchi dell’hotel, mi vedo terribilmente sensuale e attraente, nonostante mi sia preparata in fretta e furia, forse mettendo inchiostro sotto gli occhi, al posto della classica matita. Mi presento alla reception, e un “Otello” in grande stile mi accompagna nella sala dove Michele Fuga mi aspetta. Mentre cammino sto attenta nel mio reggermi in alto, cercando di dialogare al meglio con i tacchi. Ricordo anche di non aver fatto colazione e la cosa mi innervosisce parecchio.
«Piacere, Lara Tedeschi», dico con tono ancora più sarcastico dell’aria che respiro.
«Michele Fuga, piacere di conoscerti. Diamoci subito del “tu”», risponde lui, accennando un sorriso.
«Grazie, sì, è meglio anche per me», replico garbata.
«Prego siediti, vuoi un caffè?».
«Volentieri sì, lungo, lunghissimo».
Le mie ultime parole mi danno una sensazione di orgasmo acuto, un’eccitazione che volgarmente il mio bagnato si appresta a limare. Il mio sorriso viene capito pure da un cedro che, poco distante da me, emana ossigeno alla sua fotosintesi clorofilliana. Un cedro in una stanza? Ok, ho le allucinazioni. Il whisky sta ancora nuotando dentro di me e in memoria di me.

Mi siedo, tiro fuori la mia rinomata penna e i miei fogli a quadretti che, non passando inosservati, provocano una risata isterica che molti reprimono, ma che i miei occhi individuano. A seguire, mostro il mio registratore rosso: l’ho dipinto io di quel colore, perché voglio che non passi inosservato tra una folla di oggetti vaganti nello spazio.
In silenzio, arriva il caffè e io inizio la mia intervista.

Strana la sensazione di parlare con un trentenne tanto sofisticato, eppure semplice nei modi di fare. Strano il mio senso di stupore al nostro interagire e dialogare. Mentre assecondo la mia curiosità, sono d’accordo con molte sue idee, ed è la prima volta che non mi scontro con una noiosa esibizione lavorativa. Mi ritrovo a toccare vari punti e vado decisamente fuori dal senso di tutto ciò che volevo creare con le mie domande. Michele è molto affascinante. Mi stupisce con la sua intelligenza, con le sue parole. È come se stessi facendo sesso con uno sconosciuto: con piacere, ne avverto la mia più sublime perplessità. C’è sintonia tra di noi e si sente. Credo che farò continuare l’intervista per ore. I miei pensieri ora sono concentrati all’assedio.
Ad un tratto, prevedo un altro orgasmo. Sento una voce da dietro e un paio di tacchi che si avvicinano.
«Ciao Lara, come stai?».
Improvvisamente mi sento gelare e credo di riconoscere la voce. Mi volto, mi alzo e ho davanti a me Giulia Pellegrino, una scrittrice e modella che ho intervistato più di una volta. Mi porge un sorriso convincente e mi saluta abbracciandomi. Poi bacia Michele. I miei occhi vedono ciò che altri occhi non vedono. Stanno insieme, e io ora lo so.
Ho in mano uno scoop da migliaia di euro, ma io non sono una giornalista di gossip e la notizia non mi interessa. Almeno non dal lato professionale. Vederli insieme mi dà una visione acclamata, come uno spiraglio che tendi a desiderare in sogno.
Il mio sguardo li desidera. Entrambi. Insieme.

Io e lei ci siamo conosciute circa un anno fa. L’ho intervistata di persona, una sera, ad una sfilata, in un angolo: la ricordo molto annoiata, superba, litigiosa. Ricordo anche di averla domata subito, con calda tranquillità. Da lì, abbiamo continuato a sentirci per telefono e via e-mail; abbiamo fatto altre interviste e io ho sviluppato altri articoli su di lei. Ci siamo riviste un’altra volta ed è stato un incontro diverso. Lei ha dimostrato stima e ammirazione nei miei confronti, e soprattutto mi ha fatto capire di essere molto attratta, non solo dalla mia mente ma anche dal mio corpo. Tra noi ci sono state anche alcune effusioni esplicite, ma solo un veloce contatto di mani e di bocche, in un bacio sfuggente che ci siamo date nel salutarci. Lei è bellissima e ammaliatrice, selvaggia e provocatrice, con quell’alone di mistero che io adoro da impazzire.

Ora tutto è confuso. La sua ultima mail è di circa una settimana fa, credo: mi ha scritto dicendomi “mi piacerebbe rivederti”. Ora, io sono qui. Grandi emozioni e grandi coincidenze. Io, a quella mail, non ho risposto, ma ho dettato al silenzio di farlo per me.
Giulia si siede, chiede se può assistere all’intervista e ovviamente ha il nostro consenso. Inizia a fare molto caldo, ma la mia determinazione rimane implacabile e il cedro allucinato mi dà forza. Sento i loro sguardi incollati sul mio corpo, mentre il mio tanga sta facendo fuochi d’artificio con la mia intimità: ad ognuno il suo lavoro. Si è fatto mezzogiorno e decido che può bastare. Mi invitano a pranzo, e quasi voglio rifiutare, ma il mio stato, ora, controllato e dominato da una razionalità femminile, mi fa accettare volentieri.

Mi sento una donna da un lato, mentre dall’altro sono un uomo. Ragionare con il pene è una cosa che non mi è mai piaciuta. Le mie “pene” sono voglia di due persone che ora donano un segreto al mio istante. Mi piace il sesso e lo vivo liberamente. Amo sia uomini che donne e sono molto attratta dai triangoli intimi.
Metto le mie cose dentro la borsa e lascio riposare anche la mia penna. Il nostro pranzo è tutto un ridere e scherzare, come fossimo degli amici di banco al liceo che si sono ritrovati in ricordo dei vecchi tempi. Che sublime sintonia: io, nella mia fretta e nella mia calma, desidero tutti e due, allo stesso modo, e in modo diverso. L’inverso del mio essere è un contrasto del mio avere. Più volte lei mi tocca la mano, più volte lui mi tocca la mano. La mia mano destra è quasi in equilibrio con la mia sinistra, un po’ a una e un po’ all’altra, vediamo chi riceve più tocchi.

È partito tutto da stamattina, dalla mia penna persa e ritrovata, seguendo il mio viaggio verso l’intervista con il Diavolo. Con “questo” Diavolo. Ora mi sono persa e ritrovata un po’ come la mia penna. I miei due complici non sono di Roma, e si trattengono solo per questa notte. Io, invece, sono di Roma e mi trattengo qui per tutta la vita, con alcuni tratti di sparizione dovuti e voluti.

La scenografia diventa un’attenzione di struggente pluralità, tutti e tre a girare intorno a un qualcosa già progettato e annunciato. Il nostro pranzo dura quanto la mia intervista. Squilla il telefono: è il mio capo che vuole notizie sul mio lavoro. Rispondo e assicuro che è tutto ok e che l’intervista verrà perfetta, così come tutto ciò che faccio. La mia redazione mi adora, e ogni volta attende con ansia le mie creazioni, molto simili a un orgasmo collettivo.
Perversa e disattenta, ora mi lascio andare al vino che è in lotta con il whisky, e mi dedico a un discorso rovente, mettendoli in difficoltà e in ossessionata libertà di confessarsi. Sento che voglio passare una notte cattiva e godere come non mai, usandoli per la mia indegna fame, per poi ucciderli del loro stesso sangue. Troppa bellezza emanano per essere veri e meritare la luce di una vita. Vedo la mia penna come un pericoloso stiletto, i miei quadretti come uno scritto di un ultimo testamento e il mio registratore come testimonianza del rosso di una fine e dell’unico e vero godere. Ho una mente malata, come il male corteggia il bene, nel momento esatto al posto sbagliato. Non ho mai ucciso nessuno, se non delle mie parole e dei miei sguardi.
Loro non desiderano altro che una mia iniziativa ai loro corpi. L’erotismo si fonde con il sesso, e il mio essere dominante crea gioia alla mia difficoltà di essere lucida nel mio volare.
Ricapitoliamo: Michele è giovane, ha 30 anni ma ha già il suo impero di dignità, Giulia ha 32 anni, e il tutto si somma ai miei 29. La matematica non è il mio pensare preferito, ma a volte mi diletto a dare numeri alla mia amata geometria. Credevo di trovarmi al classico e feroce appuntamento sacrificato, invece è diventato un programma bagnato di piogge alternate. Appuntamento bagnato, appuntamento fortunato? A volte la banalità mi rende onore. Le percezioni sono istanti di attimi scadenti. Odo. Scopro. Elaboro.
Probabilmente la nostra fortuna è la lode dei nostri segni. Io ho strani flash in testa, come quello di legare lui e torturarlo di precoci attenzioni e maledizioni, mentre gioco malvagiamente con lei. Ho decadenze che mi lasciano infuocata di clamore. Lei ha un vestitino leggero che lascia respirare i suoi tatuaggi, lui è elegante all’occorrenza di essere, ma mentre mangia si toglie la giacca e ora anche la cravatta. Chissà come sarebbe stato se avessi colorato la sua camicia di rosso. E il vestito bianco di lei? Come sarebbe stato colorato? Le loro mani mi mandano in delirio: è un mio debole incantarmi a mani delicate femminile e a mani soffuse maschili. Tutti e due mi stanno scopando con gli occhi e a me piace far aumentare l’estremo orgoglio di speranza. Non ho fretta di avere fretta. Lo sbaglio va pagato subito, ma l’errore va gustato.

Mi immagino lei, nuda di sé e io nuda di me, e il mio intento di scoprire misure e variazioni di lui mi immerge in un perdermi di costanti, di variabili, di sfumati colori diversi dal rosso. Ma il rosso c’è, ovunque. Siamo ebbri del vino, del giorno, del cedro, della mia penna, dei miei quadretti, del registratore, del rosso, dei tacchi, degli sguardi, dei vestiti, del diavolo, delle scintille. Decido la fine, perché sono io che decido: mi alzo e li provoco dirigendomi in bagno. Voglio baciarla, in un posto incantevole, in un modo spregevole. Mentre mi alzo, lo faccio toccando la mano di lei, e la mia destra vince di tocchi rispetto alla mano sinistra. Giulia mi segue, ma io fuggo dalla porta del bagno, rapita dal suono di un rock profondo alla Nine Inch Nails, verso il quale mi dirigo. Ci sono dei tavoli e l’ambiente è grande: alcuni umani puliscono solerti per esseri alieni. Forse è lo spazio dove Michele, domani reciterà il suo discorso. Mi chiedo se arriverà il suo domani… Vedrà mai l’ordine di quel creare?
Mi volto e vedo lei dietro di me con la fretta in mano di trovarmi. Al mio sguardo si sente rovesciata da una sensazione di incredibile imbarazzo ed emozione, quasi a volersene andare. Sente il mio dominarla e non reagisce al mio agire. Le prendo la mano e la conduco alla via eterna. La sbatto con decisione in un angolo, tra il bianco del muro e un’alta pianta d’ombra. I nostri corpi sono in stretto contatto, le blocco le braccia distese sullo strapiombo dei nostri tacchi. Vicine alle labbra, vicine ai nostri occhi, ci accarezziamo, sfiorandoci di fiamme. Sento il suo respiro voglioso. Non è mia intenzione possederla ora, e lei sta al mio gioco. Il mio potere è forte e ammaliante. Le nostre parole sono state date in pasto al silenzio e ai movimenti.
Decidiamo, con tacito volere inconscio, di tornare da Michele. Voglio andare nella loro stanza d’albergo. Tutti e tre, coinvolti del nostro stato, prendiamo l’ascensore, e lì bacio lui con trasporto, gelando la reazione e la vista di lei. Furiosa di me e con me, non ho rispettato il suo egoismo di donna. Voglio la sua ribellione più riluttante. Appena entriamo in camera, lei pretende la mia attenzione posando il suo viso davanti al mio in segno di sfida: la classica sfida di chi dipende dall’atto di un’altra persona.

È sconvolgente accorgersi di certi stati. La spingo sul letto con forza, mostrando il mio sorriso beffardo, ora il cedro non ha più ossigeno, nella sua fotosintesi che non appare più tanto clorofilliana. Il vino ha sconfitto il whisky. Il verso giunge al cambiamento. Ha unghie lunghe per graffiarmi, e io devo infliggerle il mio possederla. Che starnuto che è, a volte, la sorte. Lei deve aspettare, attendermi. Prima desidero la crocifissione di Michele e poi la mia maledizione a lei che rispetta i miei presagi. È come scolarsi alcol puro in punto di morte. Voglio, voglio, voglio… troppo sentire nel mio esprimermi angosciante. Dico a lei di aspettare sul letto, prendo lui e lo porto nell’altra stanza, chiudendo la porta. Lo faccio sedere e cerco qualche oggetto in legame del mio legare ai suoi legamenti. Lo spoglio della sua camicia, e assaporo e tocco il suo fisico glabro e asciutto. Gli tolgo le scarpe e i pantaloni. Noto il suo duro al mio sintonizzare. Lo lego con alcune cravatte che trovo nell’armadio. I polsi e le gambe sono immobili alla sua seduta, e io inizio la mia tortura al ventre.
Devono pagare tutti e due della loro trappola, architettata ai miei danni, ai danni della mia acuta sensibilità. Inizio, inizio, inizio… troppe prede alla fine si sono imposte. La musica è il silenzio alla mia danza vampiresca. Tolgo i miei tacchi, lanciandoli a caso e piano piano slaccio la mia camicia, osservando acutamente l’alzarsi del suo muscolo interiore, anteriore e posteriore.
Non credo alla verginità di una santa, nemmeno con progetti di maschere sparse. Desidero, ora desidero, non è più un volere, e desidero ingoiare i suoi nervi intimi all’osare. Chissà se lei è ancora viva di là. Le mie vene sono diventate un killer di vergogna, un killer di speranza. La maestranza mi avvicina alla gloria, alla mia sovranità. Sembra che sia cambiata la scena di un film, da una stretta sceneggiatura siamo arrivati a un incubo del soffrire. Io continuo a provocare, a masturbarmi davanti a lui, accarezzando il mio corpo, ipnotizzandolo con il mio sguardo. Resuscito agli orrori, quindi non ho il terrore di sparire. Via la camicia e via la gonna. Sono nuda di autoreggenti, tanga e reggiseno e così voglio rimanere. Mi avvicino a lui, strisciando e strusciando con il suo sesso, il suo essere uomo.

Mi sembra di vedere sangue che scorre dai suoi occhi, come lacrime destinate a colorarsi della loro trasparenza: ma è tutto frutto del cedro allucinato che mi ha drogata di whisky. A cosa sto pensando? Che razza di persona mi sento ora?
Mi piacciono i triangoli, me stessa, Michele, Giulia, la mia penna, il block-notes a quadretti e il registratore rosso. Mi piacciono i triangoli, il taxi, l’autista, il diavolo. Sono posseduta dal male benefico. Mi piacciono i triangoli, l’inganno, la corte, la morte. Mi piacciono i triangoli, i vestiti, i tacchi, la sorte. I flash-back rendono lo Start nel più appagato Out, nel più sentito End.
Gli tolgo i boxer e calcolo le sue misure con la mia vista che collabora con il mio cervello. Inaspettatamente, frego il tempo con la mia velocità e infilo il suo cazzo dentro la mia bocca. Animare un remake di Nove settimane e ½ mi ha per un attimo straziata, e in stretta ribellione e in ordine con me stessa, mi sono appunto lanciata su quell’arma puntata che mi aspettava oramai da ore. Torturo l’oggetto del desiderio come solo una donna colorata sa fare. Succhio su un piedistallo il suo rovente muscolo, entro e esco con la mia bocca, infilando dentro tutti i suoi centimetri. Il nostro godere geme di ansia. Se avessimo sentito un rumore assordante, sicuramente sarebbe stata lei che di là era scoppiata.

Sono tremendamente atroce sul tasto dolente. Noi non faremo rumore al nostro apice, ma emetteremo il suono d’ordinanza, facendo sentire la più bella melodia mai percepita. Continuo, continuo, continuo: ora è un rilanciare gesti a ritmo sfrenato, con la mia bocca, le mie mani, modello l’anello e il lungo e acuto mio respiro, che imminente diventa un sospiro. Orgasmo orale sprizza come una spremuta al sapore di sostanza, di liquido spiacente. È il suo orgasmo, non il mio, e bevo solo mezzo calice del suo dare. Non mi è piaciuto molto il sostare, dopo tutto lo scintillio che ho creato, lui non è stato degno di inondarmi di alte maree. Poi dice il mio nome e guarda di nuovo il suo pene. Ora la deve pagare: do solo una seconda possibilità, mai una terza. Lo slego, per vedere cosa vuole fare…

(Domani continua la seconda e ultima parte)

[Racconto di Luciana Cameli con la collaborazione di Romina Bicicchi]

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